Quando un neonato guarda il mondo per la prima volta, le sue immagini sono sfocate e prive di colore. Ma questa apparente debolezza visiva potrebbe nascondere una sofisticata strategia evolutiva. Secondo un nuovo studio condotto dal Massachusetts Institute of Technology (MIT), i limiti visivi dei neonati non sarebbero un ostacolo, bensì un elemento fondamentale per strutturare l’organizzazione del sistema visivo nel cervello.

Nel nostro sistema visivo, l’informazione proveniente dalla retina viene suddivisa in due canali principali. Il primo, chiamato via parvocellulare, è specializzato nell’elaborazione dei colori e dei dettagli fini. Il secondo, noto come via magnocellulare, si occupa invece della percezione del movimento e della localizzazione spaziale su larga scala. I ricercatori del MIT, guidati dal professor Pawan Sinha, hanno ipotizzato che la differenziazione tra queste due vie non sia esclusivamente innata, ma possa essere in parte modellata dall’esperienza visiva nei primi mesi di vita.

Per mettere alla prova questa ipotesi, il team ha allenato modelli computazionali simulando il tipo di input visivo che i bambini ricevono realmente durante lo sviluppo. Nelle prime fasi, i modelli ricevevano immagini sgranate e in bianco e nero, mentre successivamente erano esposti a immagini più nitide e colorate. I risultati sono stati sorprendenti: i modelli allenati in questo modo sviluppavano strutture interne simili a quelle che distinguono le due vie neuronali del sistema visivo umano. Al contrario, i modelli che ricevevano soltanto immagini ad alta risoluzione e a colori fin dall’inizio non mostravano tale specializzazione.

Questa scoperta si basa anche sui dati di Project Prakash, un progetto di ricerca portato avanti dallo stesso Sinha in India, dove molti bambini nati ciechi per cause reversibili, come la cataratta, riacquistano la vista grazie a interventi chirurgici. Osservando lo sviluppo visivo di questi bambini, i ricercatori hanno notato che una visione limitata nei primi mesi non compromette, anzi, rafforza alcune capacità cognitive visive. Per esempio, bambini abituati inizialmente a immagini in scala di grigi sviluppano una maggiore capacità di riconoscere oggetti anche in condizioni visive alterate.

Lo studio ha mostrato che i modelli allenati su immagini sfocate e senza colore imparano a usare la forma degli oggetti, piuttosto che le texture, per riconoscerli — un comportamento simile a quello umano. Quando gli scienziati hanno rimosso dai modelli le unità simili a quelle della via magnocellulare, i modelli hanno perso la capacità di riconoscere le forme in modo affidabile, dimostrando l’importanza di questo canale anche nella percezione degli oggetti.

Un ulteriore esperimento ha coinvolto l’uso di video, introducendo così la variabile tempo. I modelli esposti inizialmente a stimoli visivi poco dettagliati e poi a contenuti più ricchi hanno sviluppato neuroni artificiali sensibili sia al movimento sia alla bassa risoluzione, proprio come le cellule della via magnocellulare biologica.

In sintesi, i risultati offrono una nuova prospettiva sul ruolo dell’esperienza visiva nella strutturazione del cervello. Non si esclude l’esistenza di componenti innate, ma si rafforza l’idea che il tipo di stimolazione che riceviamo durante le prime fasi della vita influenzi profondamente il modo in cui il cervello organizza le proprie funzioni sensoriali.

Secondo Sinha, lo sviluppo percettivo umano sarebbe quindi “attentamente calibrato” per ottimizzare l’apprendimento, e le fasi iniziali di visione limitata servirebbero a costruire una base solida per una percezione più sofisticata in età successive. Una scoperta che cambia il modo in cui comprendiamo non solo lo sviluppo della vista, ma anche l’organizzazione del cervello stesso.

Fonte: POPULAR SCIENCE

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